L’altro è colui che identifico fuori di me,
distante, differente, fuori dal mio campo personale, da quella bolla che fa sì
che mi senta unico e separato, a distanza fisica e psicologica.
Come immaginare che l’altro non sia nella stessa disposizione d’animo?
La relazione con l’altro si definisce nell’incontro di queste due
differenze.
Come si incontreranno due esseri per tendere un
filo, un ponte, una connessione tra loro, perché avvenga qualcosa? Ma cosa? un cambiamento di idee, di sensazioni, uno sguardo, dei
sentimenti, un contatto fisico?
Due sfere desiderano entrare in contatto, per curiosità o interesse, a
meno che non sia per rinforzare la propria identità.
Il desiderio inconscio di rafforzare la propria identità porta perfino ad
aggravare lo scarto, la frattura, la distanza dall’altro.
Cosa sta succedendo? Chi sta incontrando
chi, chi sta incontrando cosa? Quale parte di me
desidera incontrare quale parte dell’altro?
Nella misteriosa procedura relazionale, quanti fattori sono in movimento?
Il mio sguardo, il mio odorato, il mio udito, la mia pelle,
ma anche l’energia che esce. Questo riguarda il corpo, ma nella testa:
l’immagine dell’altro, la sua apparenza, le parole che pronuncia, il suo corpo,
il suo sguardo, i suoi movimenti, il tono di voce, la
sua energia.
L’alchimia dell’incontro avviene nella frizione dell’insieme delle mie componenti umane messe a contatto con quello che mi sta di
fronte. Allora mi sento o in sicurezza o nell’insicurezza.
Cosa prevale nel fatto che di fronte
all’altro mi senta sicuro o insicuro? In questo preciso momento ho coscienza
dell’insieme degli elementi in me per identificare la natura di ciò che si sta
verificando?
Quali sono gli elementi che si accordano e quelli discordanti in
funzione?
Sicuramente ci sono certi elementi che identifico subito, ma bisogna
anche che accetti che un numero ancora più grande agisca senza che ne abbia coscienza.
Devo ammettere che
non ho il controllo della globalità di ciò che si produce nel momento della
relazione con l’altro.
C’è sempre una ragione che prevale nell’incontro programmato con l’altro.
Non sembra esserci in una fila al supermercato, però continuo a emettere onde, sensazioni, odori, sguardi, un’energia, dei
gesti. Chi dice che nessuno percepisca ciò che emetto in questo momento e che
di conseguenza non percepisco le informazioni di chi mi circonda?
E se la comunicazione con gli altri
non si arrestasse mai? Perché relazionare si
limiterebbe all’espressione verbale? Continuamente sono un essere relazionale.
E’ una permanenza che io assicuro senza a volte rendermene conto, cioè senza assumermi la responsabilità delle conseguenze del
mio stato di comunicatore.
Quello che importa è la qualità delle comunicazioni e della frequenza, la
natura dei campi che partono da me.
Cosciente di questo, misuro la responsabilità che ho a semplicemente
“essere”.
Non ci sono relazioni con l’altro come sequenze spazio-temporali
condotte dalla coscienza che segmenta tutto, i suoi atti e i suoi tramiti.
La continua sensazione di separazione è una nevrosi dovuta alle paure.
Sta a me identificare le mie paure, le mie sensazioni di insicurezza.
Ogni relazione è già fatta. Non c’è che avvicinamento dei tramiti, con
scambi più o meno felici, confortevoli, armonizzatori o destrutturanti.
La relazione con l’altro è questo bagno d’energie da dove nasce la
creazione o la distruzione.
Il desiderio d’armonia sarà creatore di una relazione creatrice e evolutiva, la paura provocherà invece le tensioni distruttive,
che genereranno un rafforzamento delle difese psicologiche e di conseguenza la separatività.
L’energia che prevale in me determinerà più sicuramente dei miei calcoli
la natura dell’esperienza relazionale con chiunque. Non mi si domanda di
sentire tutti in positivo e di cadere nell’illusione
che tutti siano buoni.
Il mio solo segno è la mia sensazione d’armonia
che è in me.
La mia ricerca di felicità mi fa procedere verso uno scopo soggettivo e
arbitrario, condizionato dai miei valori, ma non sarà quello che funzionerà.
E’ la globalità di ciò che sono che guiderà la natura della mia esperienza relazionale.
La relazione con l’altro è il luogo del mio apprendimento. Vi contemplo
il mio riflesso.
A volte quell’immagine mi è insopportabile e
allora mi adopero per alleviare la pena col ricomporre la relazione. Non cerco
di rompere lo specchio, ma di far scomparire chi lo porta.
La galleria degli specchi relazionali è quella nella quale ogni viso è
una parte del mio stesso viso. Gli altri sono me stesso, sotto
mille e una forma. Io mi accolgo e aiuto ciascuno ad accogliersi
senza compiacenza. Rifiuto la seduzione.
Rifuggo dalle relazioni convenzionali, dove tutto è adattato a confermare
la mia immagine. Lì nessun pericolo, in apparenza, lì il terreno sembra adattato per me. Lì non appaiono che visi
compiacenti. Non è il luogo dove crescerei, ma a volte si ha anche bisogno di
riposo, vero?
L’esercizio della relazione è anche quello di accettare la propria
umanità, tutta l’umanità, senza aggiustamenti o compiacenza,
ma anche senza violenza.
La relazione con l’altro m’indica con estrema
precisione lo stato della mia relazione con me. Sono capace di accettare
tutte le mie parti, di prenderle tutte in conto? Se
sono capace di questo, il mio senso d’unità è compiuto e la relazione con gli
altri diventa l’esercizio di una compassione universale di cui sono il tramite.
Scompare allora la mia sensazione d’ isolamento
e nasce l’immensa gioia d’una fusione col mondo.